Cultura

Marche marinare

La civiltà marinara nelle marche

La civiltà marinara è indiscutibilmente uno degli elementi costitutivi della identità della regione Marche. La ricostruzione di una identità, di una “memoria regionale” , deve avvenire oltre che attraverso il recupero della dimensione agricola, anche mediante la ricognizione della realtà costiera, che è una peculiarità delle vicende storiche ed economiche delle Marche. Il rapido sviluppo economico del Novecento ha determinato cambiamenti così radicali sul paesaggio costiero, che oggi è difficile rintracciare nelle città della costa le radici antiche delle comunità marinare, che le hanno fondate e abitate nel corso dei secoli. Non resta che rintracciare la “memoria” di questa civiltà in antichi documenti, in cronache locali o attraverso la tradizione orale delle ultime generazioni della stagione della pesca velica o della piccola navigazione commerciale. Proprio per questi motivi si rende necessaria un’ opera di raccolta e di catalogazione delle testimonianze di una civiltà che si avvia alla estinzione,e che solo attraverso un forte impegno delle istituzioni per il suo recupero e per la salvaguardia delle sue ultime tracce, lascia alle nuove generazioni i segni più significativi della sua presenza e della sua incidenza su un sistema marchigiano non solo rurale o industriale. Il recupero della civiltà marinara, proprio per questa rapida trasformazione del paesaggio costiero,costituisce una priorità assoluta nel progetto di ricerca e di catalogazione del patrimonio antropologico esistente e della cultura materiale della nostra regione. E’ necessario perciò effettuare una inventariazione, una messa a punto delle conoscenze scientifiche e storiche sulla pesca nelle Marche e sulle sue attività collaterali . Per questi motivi, con delibera della Giunta Regionale n. 508 del 13.05.2004 è stato approvato un programma di studi e ricerche denominato “Civiltà marinara delle Marche” ,che comporta l’indagine sulle fonti, la conoscenza del patrimonio della cultura materiale e delle tecniche della pesca, la conoscenza storico-sociale della società marinara, attraverso i seguenti temi: l’individuazione delle fonti (archivistiche, letterarie, museali, iconografiche, ecc); una prima inventariazione dei reperti attraverso la ricognizione museale nei musei della pesca nelle Marche, nei musei civici con settori tematici sulla civilta' marinara, con reperti di proprieta' pubblica o privata ,non musealizzati, da recuperare; una inventariazione sullo stato attuale della catalogazione ; l’ indagine bibliografica ( fondi librari sul tema presenti nelle biblioteche marchigiane, studi e pubblicazioni gia' editi, studi inediti e tesi di laurea, prodotti audiovisi, repertorio dei convegni scientifici gia' svolti, ecc.); una prima catalogazione del patrimonio fotografico esistente nelle Marche e nelle fototeche di rilievo nazionale sulla storia della pesca e della civiltà marinara; la pubblicazione di un precatalogo, che individui consistenza, tipologia, epoche storiche e significato documentario, suddivisi per aree geografiche e per settori tematici. Per tale progetto il Servizio Tecnico alla Cultura,che ha previsto una spesa iniziale di € 18.800,00 (contribuisce a suo carico per una spesa di € 6.300,00 ) si avvarrà della collaborazione del Servizio Attività Ittiche, Commercio, Caccia e Pesca,, della Regione Marche che parteciperà alla spesa per un importo di € 12.500.00. Il progetto, che ha una durata triennale, nella prima fase prevede la ricognizione e l’ inventariazione del patrimonio della civiltà marinara nelle diverse aree geografiche provinciali a partire dal '700, verrà realizzato da un gruppo di lavoro, il cui coordinamento scientifico è affidato al prof. Gino Troli. Quattro coordinatori provinciali svolgeranno funzioni di riferimento per i territori di loro pertinenza:la dott.ssa Maria Ciotti - coordinatrice per la Provincia di Ascoli Piceno; il Dott.Giorgio Cingolani - coordinatore per la Provincia di Macerata; Dott. Roberto Giulianelli - coordinatore per la Provincia di Ancona; Dott. Umberto Spadoni - coordinatore per la Provincia di Pesaro-Urbino. La ricerca sul campo si avvarrà di altre figure operative che svolgeranno indagini conoscitive negli archivi, nelle biblioteche e nei musei ; per questa funzione si prevedono le collaborazioni di ricerca del dott. Giuseppe Merlini e del dott. Matteo Andreani. Per realizzare una ricognizione completa del patrimonio fotografico, che costituisce un nucleo importante di tutta la documentazione marinara nel suo complesso, si è individuato, per la sua lunga e qualificata esperienza nel settore, il dott. Gianni Maroni,; è’ stato inoltre costituito un consiglio scientifico composto dai prof. Ercole Sori, Marco Moroni e Renato Novelli dell'Università Politecnica delle Marche.


Tressa o cielo de sotta


Ventame


Strisce, fasce o tres


Travi


Bollo


Campane


Gradi


Smorciacandele







VELE DIPINTE - araldica marina

Sulle vele è stato scritto parecchio: vele come blasoni popolari, segni di riconoscimento di famiglie, proiezioni ideali, civetterie, affermazioni di valori religiosi, fatto estetico ecc. E' certo che sono un segno forte della marineria velica minore, sia da pesca, sia da traffico, espressione di una cultura antica che nella fondamentale aderenza alle funzioni di "macchina propulsiva a vento" non cessa di caratterizzarsi anche come fatto artistico. Anche quando sono rattoppate, spesso con altre pezze sovrapposte sui rattoppi, conservano sempre uno stile. Senza dubbio le decorazioni e i colori presenti sulle vele hanno un carattere di maggiore visibilità e di differenziazione rispetto alle parti che formano ed ornano lo scafo, proprio perché più visibili da lontano e perciò facilmente individuabili; inoltre, rappresentando il proprietario della barca, ne consentivano il riconoscimento con l'aiuto di semplici figure geometriche dipinte, alle quali a volte si aggiungevano elementi spiccatamente figurativi (cavallo, stella, rosa dei venti, gallo, ecc.) Da non dimenticare, però, l'altra funzione del colore, ugualmente fondamentale perché legata alla funzionalità, alla sicurezza e a ragioni economiche, cioè quella di consentire una migliore conservazione del tessuto: se umido e non disteso esso viene attaccato da muffe (visibili come macchioline grigio-brune), che lo rendono fragile riducendone notevolmente e in breve tempo la resistenza, mettendo in pericolo la vita stessa dei pescatori. Ricapitolando: il colore ha la funzione di rendere facile l'avvistamento della barca e la conseguente identificazione, nonché di conservare il tessuto. La grandezza ed i colori della vela facilitavano, specie in condizioni di scarsa visibilità, l'avvistamento in mare, perciò erano usate per lo più le tonalità del giallo (oro, scuro) e del rosso (vivo, ruggine), colori che risaltano in mare per essere complementari all'azzurro. Numerose erano poi le combinazioni dei colori anche in una stessa famiglia rispetto a quella del capostipite, in quanto i figli tendevano a diversificare le loro vele per caratterizzare la propria identità rispetto ai colori delle vele dei fratelli e del genitore stesso, quando non ne ereditavano la lancetta. Nel dopoguerra, col diminuire del numero delle imbarcazioni, si semplificano le strutture e i colori delle vele, dato che l'identificazione può avvenire senza confusione e cade di conseguenza, anche la necessità delle figure centrali, salvo quei simboli fortemente identificati con la famiglia. Infine, non c'è da dimenticare un ultimo scopo, essenziale della funzione di riconoscimento svolto dalle vele: informare coloro che da terra erano in attesa dell'arrivo delle barche, cioè i famigliari, scalanti e commercianti, specialmente in una spiaggia come quella portorecanatese priva di porto, dove il rientro delle imbarcazioni, in condizioni di tempo non buono, era tutt'altro che sicuro e le operazioni di sbarco dovevano svolgersi rapidamente, in un fondale profondo anche vicino terra, diversamente da quello di Fano, Senigallia, Civitanova, P. S. Giorgio e S. Benedetto del Tronto. L'avvistamento in mare era importantissimo per trabaccoli, barchetti, paranze; lo era meno per le lancette, che praticavano la pesca costiera rimanendo entro un raggio di 10 miglia, raramente 20-25 miglia dalla località di provenienza. Queste, fino agli anni trenta, dopo aver trainato il capasfoglio (rete per la pesca di fondo) per tutta la notte, all'alba si riunivano in coppie di barche per calare la tartana (grande rete trainata da due barche) e procedevano con la rotta parallela ad una distanza di circa 100 metri. La barca del parò, colui che guidava la pesca, e quella del sottoparò si distinguevano proprio dai colori della vela; spesso la prima aveva l'angolo di penna, il ventrame tutto colorato, mentre l'altra solo una striscia colorata, detta tres.

Tecnica della colorazione

Terminate le cuciture e l'armatura, per uno o due mesi la vela veniva utilizzata "in bianco" per fargli prendere il giusto assetto ed eventualmente reintervenire per corrreggere alcuni ferzi. In questa fase occorreva molta attenzione nel far ben asciugare la vela, per non permettere l'attacco delle muffe. Solo quando la vela era "pronta" si passava alla colorazione. Il processo di colorazione delle vele prevedeva l'uso delle terre colorate che, come di è già detto, assolvevano ad una funzione prevalentemente pratica: formare uno strato di protezione sulla stoffa che prolungava la durata delle vele, impedendo il formarsi delle muffe nel tessuto sempre un po' umido per la salsedine. La vela veniva colorata su entrambi i lati secondo una tecnica precisa. Dopo aver diluito le terre in acqua, la soluzione veniva stesa con pennelli sulla superficie della vela distesa a terra; quando il colore era assorbito dal tessuto ed iniziava ad asciugare, la vela veniva girata e si ripeteva l'operazione dall'altro lato, quindi veniva arrotolata e fatta asciugare completamente in luogo fresco perché il colore potesse essiccare completamente. Quando sulla vela si dovevano fare dei disegni, questi venivano prima abbozzati con un pezzo di carbone da colui che da tutti era riconosciuto come "l'artista delle vele". Tracciato il contorno delle figure si passava internamente il colore con pennelli, spugne o scopette di saggina. Il colore del campo di maggiore dimensione della vela, la cui intera superficie viene detta "corpo", veniva identificato come il "colore del corpo". Una volta asciugata, la vela veniva srotolata e bagnata di nuovo, questa volta con acqua di mare per eliminare l'eccesso di colore e quasi fosse il "battesimo" della stessa, quindi issata all'albero della lancetta e fatta asciugare completamente. Solo allora la vela era definitivamente pronta. Per quanto riguarda la gamma cromatica, secondo il Manzocchi, nell'area Adriatica erano usati una decina di colori e solo cinque erano presenti in ciascuna marineria, ma era raro che fossero usati tutti e cinque sulla stessa vela. Il rosso e il nero, considerati "nobili", erano impiegati per le parti di maggior rilevanza, quali l'angolo di penna (ventame) e l'emblema centrale. Le figure convenzionali più usate nelle vele della marineria adriatica erano: scaletta, ventame, tacco, campanella, strisce, cannoni, travi, campane, gradi, tovaje, pocce, smorciacandele e pallò o bolli. Ad essi poteva essere aggiunta un'ulteriore figura che rappresentava il proprietario o la famiglia e consentiva l'identificazione della barca: è questo il simbolo che viene ricordato meglio. La figura o simbolo del proprietario, può riferirsi ad episodi della sua storia personale ed essere ereditato da un ascendente.

I simboli

I simboli che apparivano sulle vele possono essere raggruppati in poche categorie simboliche e si ripetono in tutte le marinerie anche se in alcune, come in quella di San Benedetto del Tronto, raggiungevano una notevole varietà. A Porto Recanati abbiamo rilevato simboli appartenenti a quattro o cinque categorie: religiosi, animali, stelle, geometrici e vari. Su circa un centinaio di vele analizzate i simboli diversi risultano essere 27, mentre le restanti presentano combinazioni di campiture di colori o la ripetizione del simbolo con l'aggiunta di ventrame o di tres ad indicare che la lancetta costituiva la "brigata", cioè la copppia di pesca.














scandaglio a sagola

 


Pesca a strascico con la tartana
 


Tartana



Carpasfoglie
 


Rete utilizzata per la pesca
di telline



Pesca di telline e vongole

 


Particolare raffigurante la pesca alla sciabica da un acquarello di fine '700
 


Nasse utilizzate per la pesca
delle seppie
 








NAVIGAZIONE - momenti e attrezzi

La navigazione a vela è spesso frutto di una pratica secolare e di un sapere empirico legati strettamente alla particolarità delle singole barche, ai venti, alle correnti, ai fondali. Una delle poche cose su cui un parò poteva fare ricorso per la navigazione oltre alla perfetta conoscenza dei venti e della posizione delle stelle, era l'uso dello scandaglio a sagola con il quale riusciva a rilevare la posizione esatta della paranza. Era una palla quasi ovale di piombo che pesava un minimo di 10 ad un massimo di 54 Kg.; la più leggera si usava con la bonaccia, la pesante con il mare grosso. Gettata in mare, quando la si tirava su portava residui di terreno e si poteva riconoscere se era di sabbia o fango. Un altro attrezzo necessario durante la navigazione era la spera: un'ancora legata alla rovescia che gettata in acqua doveva impedire che la barca corresse troppo.

LA PESCA - tecniche ed organizzazione del lavoro

Se la navigazione costituiva l'elemento nodale dello "stare in mare" e si avvaleva di un bagaglio secolare di esperienze, la perizia del "parò" trovava la sua migliore estrinsecazione nella pesca. La scelta dei fondali adatti, la capacità di non incappare nelle "presure" ( relitti che potevano lacerare le reti ), la regolazione della velocità di traino, l'intuizione di eventuali cambiamenti metereologici erano alcune delle conoscenze che il repertorio di un parò prevedeva: le pescate, mai casuali, testimoniano spesso l'effettiva capacità del capopesca. La paranza, con gli spazi disposti sapientemente ad accogliere una vastissima attrezzatura fatta di innumerevoli cime di varia grandezza ( lu ciucce, i lebbà, lu mante, la ciaule, i cuncire e le terzarole ecc. ) e di più reti e vele di ricambio, era pronta per bordate che duravano di media una quindicina di giorni e prevedevano durante le 24 ore, calate di varia durata. Sui fondi di sabbia pulita di solito la "cala" durava da due a quattro ore, mentre sui fondali fangosi e sporchi non superava le due ore. Il nome stesso dell'imbarcazione sta ad indicare che la pesca veniva effettuata a coppia ( la paranza del parone e quella del sottoparone distinte per i diversi colori del "ventrame" (parte alta della vela ) in modo tale che a guidare la manovra fosse la barca di sopravvento e la distanza di navigazione fosse di un massimo di 150 mt.; con la nebbia le paranze si legavano insieme con una cima e un componente dell'equipaggio ne controllava la continua tensione per evitare pericolosi avvicinamenti. Allo stesso modo pescavano le lancette, che effettuavano però bordate di un giorno, partendo all'alba e tornando al tramonto: di notte venivano utilizzate per trainare il "carpasfoglie", lunga rete a sacco con l'imboccatura tenuta costantemente aperta da un palo di faggio di circa due metri: adatto a fondali particolarmente bassi e fangosi. Il "carpasfoglie" fu la rete tipica della pesca notturna e di fondo. La presenza di eventuali ostacoli e la necessità di difendersi dai delfini consigliavano l'uso di reti protettive a maglie larghe ed incatramate ( lu iacchere e la parnanza ), le quali, disposte sulla coda e sul fondo assicuravano una maggiore resistenza della rete. A bordo la vita dei pescatori era estremamente dura e solo una attenta ripartizione dei compiti riusciva a renderla sopportabile. Una lancetta di media grandezza poteva essere governata da quattro o cinque marinai; gli angusti spazi di una paranza invece dovevano contenere un equipaggio invernale di un minimo di dieci marinai ed uno estivo di otto o nove. La differenza stagionale era dovuta all'uso solo estivo del battello portapesce sul quale doveva essere imbarcato sempre un marinaio della paranza; d'inverno il battello veniva disarmato e a svolgere la sua funzione erano le "sciabiche" che invece di raggiungere le paranze al largo attendevano che si avvicinassero alla costa.

LA PICCOLA PESCA - il mare a misura d'uomo

Con il "carpasfoglie" trainato da minuscole lancette, le catture erano particolarmente ingenti per ciò che concerne il novellame ed assicuravano, perciò, dei buoni prezzi sul mercato. La "sciabica", praticata soprattutto a primavera e durante l'estate, veniva effettuata con la barca omonima, la quale, lasciato un capo della fune a terra, la liberava via via fino ad una certa distanza dalla riva; a questo punto veniva calata la rete, parallelamente alla costa e sempre remando si riportava un altro capo della fune verso terra. Due gruppi di sette o dieci persone dalla spiaggia dovevano, con la massima coordinazione di movimenti, ritiratre la rete cercando di impedire la fuga del pesce rimasto all'interno della stessa. Spesso i gruppi erano molto compositi ed intere famiglie, comprese donne e bambini, partecipavano alla sciabicata. Il tipo di rete utilizzata per la pesca a strascico era la "tartana" consistente in un sacco o coda di 20-30 mt. che prosegue con due pareti laterali o braccia fino a due aste di legno mantenute da corde attorcigliate ( i lebbà ) ed assicurate agli scafi trainati mediante delle "reste", grossi cavi di canapa di 800-1000 mt. con cui la rete veniva manovrata. Una funzione preminente la svolgevano i "lebbà" la cui pesantezza e consistenza provocava un intorpidimento delle acque e la fuga dal fondale dei pesci che venivano così ingoiati dalla rete. Con una barca di 6-7 metri pescavano i "vongolari": scelta una zona, veniva fissata un'ancora sul fondo e mediante un verricello applicato all'imbarcazione si recuperava la sua fune mentre un marinaio a poppa dragava la sabbia con un attrezzo a rete provvisto di una lunga asta. Giunti all'ancora ci si allontanava nuovamente a forza di remi per dragare un'altra fascia di terreno. Non dissimile era la tecnica dei "tellinari" che servendosi di un apposito attrezzo, percorrevano, trascinandolo a forza di schiena, tratti di mare lungo la riva dove tra sabbia e sassi erano abbondanti vongole e telline. La pesca con le nasse invece assicura buone catture di seppie avvalendosi di un attrezzo a gabbia provvisto su una parte di una sorta di imbuto che permette all'animale di entrare, ma non di uscire. All'interno viene posto di solito un ramoscello di alloro e le seppie entrano per deporvi le uova; calate a poca distanza dalla costa con una cordicella di canapa, la "barbetta", e appesantite con un mattone, vengono salpate periodicamente. Tecniche di pesca che richiedevano intuito e capacità erano il "rezzaglio" e la "bilancia", reti da lancio la prima e da posta la seconda che dovevano agire su esigui tratti di mare. I "cogolli" per la pesca delle anguille, i "palagresi" armati con ami ed adatti a varie catture, le "retine" per la pesca a cefali e sgombri oltre alla pesca con la lenza sono altre versioni di questo rapporto a misura d'uomo con il mare.

























 


La costruzione della rete

 


"Girella" del funaio

 


Ruota del funaio









LE ATTIVITA' COLLATERALI

La pesca non limitava la sua incidenza economica ai settori precedentemente illustrati ma innestava un sistema molto articolato di attività collaterali. L'intera popolazione costiera ne veniva coinvolta partecipando così indirettamente alla costruzione di una struttura produttiva composita che sempre più andava caratterizzando le città rivierasche. Della cantieristica navale trattiamo nell'apposita sezione per sottolineare il fondamentale ruolo di autonoma tradizione costruttiva strettamente legata ai bisogni e alle esperienze dei pescatori; parallelamente alla messa a punto degli scafi, la navigazione richiedeva la confezione delle vele. Se ne occupavano insieme agli stessi marinai, le "velare" che con panni di canapa e di cotone davano forma alla grande vela "latina" o a quelle più piccole "alla terza" provvedendo periodicamente a rattoppare gli strappi e i cedimenti. Il settore in cui maggiore era il coinvolgimento della manodopera cittadina era quello della confezione delle reti. Migliaia di donne ricevevano a domicilio lo spago e intessevano la rete, per poche lire, tanto che le "retare" riempivano le strade di ogni paese della costa. Servendosi di una sedia sulla quale appoggiavano la rete via via prodotta, le retare lavoravano con una specie di ago lungo di legno lungo 20 cm., detto "linguetta" e attorcigliavano lo spago su cannucce dette "morello" di vario diametro a seconda della grandezza che le maglie dovevano avere. Dopo l'uso le reti avevano bisogno di una attenta manutenzione: ad occuparsene era "lu rétire", un vecchio marinaio che continuava in questo modo a partecipare all'attività produttiva. Suo compito era pulire e "rammacchiare" le reti quando le barche erano in secca.

IL CASO DELLA CORDA - ciclo e figure della produzione

La produzione artigianale e poi industriale della corda, nata come attività collaterale, ben presto per numero di addetti ed entità del fatturato si appaiò quasi allo stesso settore peschereccio. Ampie zone dei paesi furono caratterizzate dalla presenza dei funai; a S. Benedetto i "fénare" erano in maggior parte dislocati lungo il greto del torrente Albula e i funai altro non erano che l'ultimo passaggio di un ciclo di lavorazione estremamente articolato. Una prima fase di lavorazione avveniva ad opera dei canapini, il cui compito era quello di maciullare la canapa e cardarla con pettini di ferro di varia grandezza. Con questa operazione molto rischiosa per le mani del cardatore e per i polmoni costretti come si era a respirare aria satura di polvere, veniva separato il fiore (parte migliore ) della canapa dalla stoppa ed approntati i "nucchie", mazzi di canapa grezza per la filatura. Era questo il momento del funaio che, scelto un sentiero, poteva filare lo spago con questo procedimento: una grande ruota di legno veniva girata in fondo al sentiero da vecchi a riposo o da piccoli fanciulli mediante una o due manovelle e metteva in movimento, con una trasmissione a cinghia, la "girella", posta su un'asticella ad un metro circa da terra. La rotazione dei suoi dischi scannellati attorcigliava la canapa via via che il funaio, andando a ritroso, con la canapa avvolta alla vita, si avvicinava alla fine del sentiero dove avrebbe potuto assicurare lo spago finito a "lu pire" ( ferro infisso nel terreno ) e ricominciare un'altra filatura. Gli spaghi di ottima fattura e di spessore omogeneo erano poi di nuovo lavorati e trasformati in corde. Con forme di varia grandezza e portata ( da 4-5-6-8 spaghi ) si potevano commettere più corde tanto da raggiungere i diametri maggiori ( i "lebbà", le "reste", i "traitore" ecc..)













 


fase 1


fase 2


fase 3


fase 4

Fasi costruttive di scafo tondo

 


Ricostruzione grafica di lancia


Ricostruzione grafica di paranza









PRIMA E DOPO IL MARE - la costruzione, il varo e la manutenzione

La tradizione costruttiva delle barche da pesca è certo uno dei patrimoni fondamentali per la permanenza in ruolo egemonico della marineria del centro-adriatico in quanto a tecniche costruttive e a risultati produttivi. Un'immagine di lavoro in uno dei tanti cantieri sambenedettesi documenta la persistenza di una cura tutta artigianale nella messa a punto delle parti e nel loro assemblaggio. La piccola cantieristica locale già nei primi dell'Ottocento costruiva secondo modelli sempre più affinati gli scafi di media e piccola stazza per la pesca costiera. Verso la fine del secolo ha un impulso decisivo la costruzione in loco delle paranze e S. Benedetto, Porto S. Giorgio e Civitanova sviluppano delle tradizioni cantieristiche distinte. Quella sambenedettese diventa senz'altro più solida delle altre per la presenza di alcuni "pionieri" che colgono la potenzialità di sviluppo del settore. Le barche a scafo tondo caratterizzavano quasi totalmente la produzione locale e venivano approntate con metodo costruttivo che andava sempre più semplificandosi sulla base dei "maestri d'ascia" e "calafati". Alle tre corbe fondamentali se ne aggiungevano altre seguendo la curvatura di listelli di legno longitudinali facenti capo ai "dritti" di prua e di poppa; su questa struttura di base si mettevano gli altri elementi dello scheletro (paramezzali, controruota, controdritto, dormienti e bagli) e quindi si stendeva il fasciame a partire dall'alto e poi dal basso fino al ricongiungimento effettuato con una tavola sagomata, spesso benedetta ad attestare l'ultimazione e a richiedere la protezione per l' "opera viva" della barca. Con legno di pino veniva quindi costruita la coperta delle paranze e dei barchetti; l'albero poteva essere di pino o di larice fino al calcese (parte più alta), fatto invece di olmo e munito di incavo con pulegge per il passaggio delle drizze dell'antenna. Il fasciame, fatto generalmente in legno di quercia (nel caso delle lance anche di larice), perché quest'ultimo tende ad una minore dilatazioni di altri per effetto dell'umidità ed è più resistente alle teredini, non veniva stagionato in opera ed aveva quindi bisogno di un buon calatafaggio con stoppa e pece. Inoltre, le tavole di fasciame più spesse, per essere piegate, dovevano subire una operazione preventiva di ammorbidimento: messe nell'acqua bollente o coperte di fango e riscaldate con fascine accese diventavano duttili ed adattabili ed una volta raffreddate mantenevano la curvatura voluta. Una simile operazione veniva effettuata una o più volte l'anno per la manutenzione dello scafo e consisteva nell'eliminazione dello strato vecchio di pece mediante la sua copertura con fango di fiume e l'accensione di fascine di legna sparse tutt'intorno. La "conce", così veniva detta in dialetto sambenedettese l'intera operazione, proseguiva con una stesura di zolfo sulla carena e di pece sull'opera viva da parte dei calatafati che assicuravano così la "tenuta" dello scafo. Il varo di una paranza con l'ausilio delle sole "palanche" (assi di legno su cui doveva scorrere lo scafo) era una delle operazioni più improbe per gli uomini pronti al "traiture" ( grossa corda tirata a mano per spostare l'imbarcazione ) e per quelli che con il solo aiuto dei muscoli della schiena dovevano far compiere alla barca l'ultimo tratto. La dimensione comunitaria del varo veniva sottolineata da grida e canti collettivi. Prima del varo inaugurale le paranze venivano battezzate.

LE BARCHE - forme e tipi navali della costa marchigiana

Paranza - barca a scafo tondo con lunghezza media tra i 14-16 mt. e larghezza 4-5 mt. con un albero d'altezza pari alla lunghezza e armato, solo nell'area sambenedettese, a vela latina mentre nel resto dell'Adriatico la vela era al terzo: l'antenna, la cui lunghezza minima era di 27 mt., costituiva la caratteristica preminente della paranza sambenedettese. Lancia - barca a scafo tondo di varie dimensioni tra i 7 e i 12 mt. ( lancettuccia, papagnutte, ecc..) con vela alla terza ( la vela alla terza oltre l'antenna aveva il bome in basso ) armata su un albero pari alla lunghezza dell'imbarcazione. Battello - barca a scafo tondo piuttosto piatto costruita con gli stessi sistemi della paranza ed utilizzata come portapesce nella stagione estiva. Fornita come la paranza di vela latina presentava notevoli difficoltà di manovra. Barchetto o trabaccolo - barca con scafo affine a quello della paranza ma con alberatura doppia anziché singola ( due vele alla terza ), diffuso nell'area tra Porto S. Giorgio e Civitanova. Molte paranze prima della meccanizzazione furono armate "a barchetto". Altri tipi notevolmente diffusi sono la battana ( fondo piatto e poppa a specchio ) e la sciabica ( scafo tondo con dritto di prua accentuato ) usate soprattutto per la piccola pesca costiera.